I sogni di quando siamo piccoli sono grandi

I sogni di quando siamo piccoli sono grandi, gli adulti li chiamano sogni sproporzionati. Sono enormi e leggeri, gli adulti li chiamano irrealizzabili.

Indossare una tuta da astronauta e volare sulla luna, senza ippogrifo ma con una navicella spaziale che costruisci in giardino coi cartoni. Salire su una baleniera e salvare il mare, amare tutti i pesci che lo abitano e piantare arcobaleni. Vivere danzando e creando, con una bacchetta da direttore d’orchestra in mano che dà vita a sinfonie bizzarre di note che si abbracciano.

I sogni dei grandi sono piccoli, a volte meschini, i piccoli li chiamano sogni inutili. Sono quotidiani e materiali, i piccoli dicono che non servono.

Quando questa inversione di proporzioni avviene, è come quando si rompe un bicchiere. A volte si sbecca, e il bordo è impercettibilmente compromesso, ma taglia le labbra se le appoggi per prendere un sorso. A volte si spacca di netto, quando scivola dalle mani insaponate, le due parti combaciano ancora ma non sono più riattaccabili. Altre volte invece si frantuma in tanti pezzettini, era un bicchiere fragile, e devi spazzarlo via con la scopetta altrimenti i piedi nudi si tagliano. Ci sono bicchieri che non si rompono, magari diventano solo un po’ opachi, non ci puoi guardare attraverso. Infine, a volte ad alcuni bicchieri capita di rompersi e perdere un pezzettino, magari va a finire sotto al mobile della cucina o chissà dove, e allora vanno cestinati, perché non servono più. E quando dopo mesi, o magari anni, quel pezzettino salta fuori, uno si dice “ecco dov’era andato a finire, guarda un po’ che roba”.

Quarantena 4

Vivo in uno stato di semi coscienza, ho sonno, sempre sonno. Se prima non dormivo, ora dormirei e basta. Mi sento addosso una stanchezza millenaria, per la quale è faticoso tutto. Poi agisco, non resto immobile. Lavoro da casa, otto, nove ore al giorno. Faccio il letto, mi lavo, lavo i piatti sporchi, comunico tanto e spesso via mail, via messaggio, via telefono. Organizzo pranzi, cene. Parlo, rido, leggo.

Poi ci sono dei momenti in cui i ricordi mi colpiscono in faccia come degli schiaffi. Ricordi senza ordine logico.

I miei nonni seduti al tavolo da pranzo in cucina che mangiano gli spaghetti al pomodoro e apparecchiano un posto in più per me. Fattele due forchettate, mangia con noi. Parlano, ridono, sono reali. Il tavolo è quello bianco con la bruciatura della caffettiera. L’avevo fatta io a sei anni. La tovaglia non la ricordo, ma sento perfettamente l’odore degli spaghettoni al pomodoro fresco con il parmigiano sopra, grattugiato grosso. A me piace fino, ma li mangio lo stesso. Sento tutto l’amore che i nonni provano, un amore che si lega a qualcosa di profondo, al cosmo, alle radici inestirpabili, agli alberi che ondeggiano al vento ma sorridono sempre.

Quell’amore senza condizioni, quel ti voglio bene qualsiasi cosa accada, quel desiderio di stare insieme per il piacere di esserci, un piacere senza fronzoli, quei sorrisi così aperti e così onesti, li avrei percepiti poche altre volte nella vita.

Quarantena 3

Faccio dei sogni neri, pieni di mura, di sbarre, di fucili, mitragliatrici, violenza. Faccio sogni vischiosi, appiccicosi, dove la mia testa è costantemente esposta al pericolo e il mio corpo non si muove. Faccio sogni di solitudine, dove non sono più in grado di parlare o raccontare, oppure dove parlo e racconto e nessuno conosce il mio alfabeto. Faccio sogni di rinuncia e di sparizione, di movimento verso luoghi che non mi conoscono.

Quarantena 2

Mi perdo nei dettagli. Più del solito.

Se penso alla trama di un film, ne ripercorro le immagini saltando la narrazione; se racconto la mia giornata a qualcuno che sta all’altro capo del telefono, ingrandisco solo degli attimi.

Mi perdo in una serie di domande sul se, sul quando e sul come. Se torneremo mai ad abbattere la distanza, e se quando accadrà avremo paura. E come vivranno i nostri figli, con questa bolla di sapone fragilissima attorno al corpo, che se ne incontra un’altra scoppia.

Siamo usciti dalla peste? E vi assicuro che leggere la peste di Camus in questo periodo può rivelarsi una pessima idea se siete soli in un paese straniero.

Un acceleratore di morte, questo sembra.

sound – dieci, venti, trenta, forse quaranta

Dieci, venti, trenta, forse quaranta

Che poi io all’inizio odiavo andare a fare la spesa, compravo sempre le stesse dieci cose. Latte, uova, pane, pasta, due mele, una passata di pomodoro, biscotti, caffè, un etto di prosciutto cotto tagliato sottile e una confezione di ghiaccioli al limone.
Poi è arrivato lui, e con lui la spesa nel carrello, ché le mie dieci cose sono diventate venti, mie e sue insieme. La sera sul divano era bello restare così, mangiare la pasta al tonno accovacciati nel nido di cuscini, e mettere il naso fuori solo quando c’era il sole, in quei pochi giorni dell’anno clementi con il cielo in cui la vita diventava gratis. Poi è arrivata lei, quel giorno in cui abbiamo aggiunto un test di gravidanza alle nostre venti cose, e non potevamo aspettare, abbiamo chiesto alla cassiera se lì alla Coop ci fosse un bagno, e lei è stata gentile, ci ha indicato una porta in fondo, ma poi ci ha visti uscire con le facce pallide e ci ha chiesto se fosse tutto okay. Ha usato proprio la parola okay. Le nostre venti e più cose stavano per diventare trenta, forse quaranta, e non sapevo se lei avrebbe amato i ghiaccioli al limone, o se mi avrebbe odiata, non sapevo nulla. Mi ritrovavo a spingere il carrello con la pancia sempre più grande e l’assenza di lui insidiosa che si faceva strada tra le corsie degli yogurt, ché quando avevo freddo mi dava la sua felpa, sempre, quando facevamo la spesa, e invece adesso avevo freddo e basta, e piangevo un po’, col carrello con le mie trenta cose tutte spaiate.

il fallimento è un naufragio

Il fallimento è un naufragio, in questo determinato momento in cui è ambientata la storia, l’esperienza del fallire è condivisa, quotidiana, assoluta. La crisi coinvolge tutti, è un Giudizio Universale. Per il paradiso a sinistra, l’inferno a destra. Tutti nudi, pollice su si va in cielo, pollice giù si va in basso. Squillano le trombe, si risvegliano i morti, i cadaveri si alzano dalle tombe. Alcuni sono solo ossa, schioccano tutte le articolazioni, è come camminare su un tappeto di foglie secche, le ossa si staccano, i corpi sono contesi da quelli che vanno verso il paradiso e quelli che precipitano verso gli inferi. Nessuno vuole affondare, ma sulla zattera dei vincitori non c’è spazio per tutti, allora ognuno si aggrappa all’altro, le unghie nella carne, le dita negli occhi, i capelli tirati. Caronte prende il remo della sua barca e bestemmia cacciando via i dannati, a palate, bestemmia in veneto. Ma dove sito Dio Boia?

Dieci, venti, trenta, forse quaranta

Che poi io all’inizio odiavo andare a fare la spesa, compravo sempre le stesse dieci cose. Latte, uova, pane, pasta, due mele, una passata di pomodoro, biscotti, caffè, un etto di prosciutto cotto tagliato sottile e una confezione di ghiaccioli al limone.
Poi è arrivato lui, e con lui la spesa nel carrello, ché le mie dieci cose sono diventate venti, mie e sue insieme. La sera sul divano era bello restare così, mangiare la pasta al tonno accovacciati nel nido di cuscini, e mettere il naso fuori solo quando c’era il sole, in quei pochi giorni dell’anno clementi con il cielo in cui la vita diventava gratis. Poi è arrivata lei, quel giorno in cui abbiamo aggiunto un test di gravidanza alle nostre venti cose, e non potevamo aspettare, abbiamo chiesto alla cassiera se lì alla Coop ci fosse un bagno, e lei è stata gentile, ci ha indicato una porta in fondo, ma poi ci ha visti uscire con le facce pallide e ci ha chiesto se fosse tutto okay. Ha usato proprio la parola okay. Le nostre venti e più cose stavano per diventare trenta, forse quaranta, e non sapevo se lei avrebbe amato i ghiaccioli al limone, o se mi avrebbe odiata, non sapevo nulla. Mi ritrovavo a spingere il carrello con la pancia sempre più grande e l’assenza di lui insidiosa che si faceva strada tra le corsie degli yogurt, ché quando avevo freddo mi dava la sua felpa, sempre, quando facevamo la spesa, e invece adesso avevo freddo e basta, e piangevo un po’, col carrello con le mie trenta cose tutte spaiate.

Alfredo Jaar The Silence if Nduwayezu (1997). ©Finnish National Gallery, Petri Virtanen